Lo spunding
Un argomento che nell’ultimo anno va molto. Fino a qualche tempo fa erano in pochi gli eroi che sapevano in cosa consistesse nello specifico. Quest’oggi invece tutti sanno cosa sia lo spunding grazie alla buona opera di divulgatori, professionisti del settore, semplici homebrewers e, perché no, anche grazie a video di gente che, immersa con occhiali tamarri nel magico fantabosco birrario pieno di bombole parlanti e fermentatori eroici, ci regala servizi degni della famiglia Angela.
In caso foste ancora nella più beata e tranquilla miscredenza tranquilli: ci sono io.
Cos’è “sto’ spunding”?
Ognuno di noi è cresciuto con la bibbia di Bertinotti e Faraggi, imparando come arrabattarsi alla bell’e meglio in casa e limitare i danni facendo birra più o meno potabile senza colpo ferire. Non sto dicendo che i principi lì discussi siano da aborrire, né tantomeno che quel manuale sia inutile. Solamente, in barba a tutte le edizioni aggiornate che vengono fatte, rimane un po’ datato. Resta comunque un validissimo strumento per raggiungere uno scopo ma, nel mentre, gli anni sono passati e la situazione a livello casalingo è cambiata.
Tutto ciò per dirvi che le tecnologie a disposizione di noi homebrewers hanno fatto un salto notevole, ma di questo parleremo in altra sede. I metodi per produrre birra, invece, sono per fortuna rimasti sempre gli stessi. Dobbiamo sempre ammostare, filtrare e bollire, graziaddio… anche se negli ultimi tempi si è sparsa la voce di eroi che, eresia!, birrificano con la stessa pentola da mash a boil. E dobbiamo pur sempre fermentare e carbonare la birra, perché le birre sgasate (quasi tutte) fanno schifo.
Leggiamo sulla suddetta bibbia che per aggiungere CO2 alla nostra cervogia abbiamo tre opzioni: priming, krausening e spunding. Sempre lo storico manuale ci consiglia a livello casalingo di adottare il primo metodo in quanto più semplice, affidabile e soprattutto praticabile nelle nostre cantine stantie. Per quanto riguarda gli altri due si limita a poco più che un accenno. Giustamente.
Non mi starò a dilungare troppo sul priming, possedete il giusto raziocinio per reperire informazioni altrove, senza che io stia a ripetere cose trite e ritrite. Stesso discorso per il krausening. Mi vorrei concentrare sullo spunding che è sostanzialmente il metodo più affidabile e scientificamente ineccepibile per carbonare la birra. E ve lo dimostrerò.
Sappiamo tutti che durante la fermentazione alcolica il lievito produce etanolo, CO2 e altri sottoprodotti secondo le rispettive percentuali spannometriche di 49,5%, 49,5% e 1%. Mentre l’alcol rimane nel prodotto, l’anidride carbonica viene dispersa nell’aria grazie al lavoro del gorgogliatore che impedisce la ritenzione del gas nel contenitore di fermentazione e dunque la sua esplosione. Qualora dovessimo avere un fermentatore ermeticamente chiuso (e pressurizzabile) senza possibilità di sfiato, parte della CO2 rimarrebbe nel liquido, parte andrebbe a colmare un eventuale spazio di testa vuoto fino a che in entrambi la pressione non risulterà la medesima. Per una spiegazione veramente chiara e ben fatta potete sempre guardare qui.
Per lo spunding possiamo utilizzare qualsiasi contenitore, purché sopporti la pressione, anche delle bottiglie. Quando facciamo priming accade infatti esattamente quanto descritto sopra: il lievito, fermentando, produce gas che non può uscire dalla bottiglia. Solamente che, mentre in quest’ultimo caso è grazie alla fermentazione di zuccheri aggiunti in un secondo tempo che andiamo a carbonare, con lo spunding tutto il materiale fermentescibile deriva dal nostro mosto di partenza, senza necessità di ulteriori aggiunte. In parole povere la carbonazione avviene grazie al completamento della fermentazione, piuttosto che grazie ad una ri-fermentazione, come nel caso del priming o del krausening.
I suoi vantaggi
Come detto sopra, non avremo bisogno di aggiungere altri zuccheri una volta completata la fermentazione, procedura che allunga il tempo necessario ad ottenere un prodotto finito e carbonato: da una ipotetica settimana/due ad un mese ed oltre se utilizziamo lieviti a bassa fermentazione o molto flocculanti. Per accorciare i tempi, possiamo sempre aggiungere lievito fresco per la rifermentazione, come molti birrifici fanno, ma c’è comunque da attendere. Con lo spunding, invece, terminata la fermentazione la birra è già gasata.
In secondo tempo andremo incontro a meno rischi di contaminazione. E non mi riferisco solamente a chi fa priming direttamente nel fermentatore (dovendo dunque travasare e aprire) ma anche a chi lo fa in bottiglia con una soluzione zuccherina e siringa dosatrice: dovendo introdurre meno elementi esterni, ci sono meno rischi. Ovviamente basta avere le giuste accortezze, ma se non altro eviteremo un passaggio… o più.
E così giungiamo ad un altro punto a favore: la praticità. Preparare una soluzione zuccherina, aggiungerla al mosto in dosi opportune secondo specifici calcoli, aprire, chiudere, attendere, mettere a seconda dei casi altro lievito… è molto più impegnativo da un punto di vista di energie e tempo.
Se non rifermentiamo in bottiglia, inoltre, il lievito si sarà anche già tutto depositato in fermentatore, dove rimarrà. Diversamente esso tenderà ad essere presente in misura maggiore sul fondo della stessa, sia quello aggiunto in bottiglia, sia quello che si è moltiplicato in rifermentazione al suo interno. Solitamente tutti lasciano le ultime due dita di fondo quando bevono produzioni artigianali o casalinghe. Con lo spunding no, non c’è praticamente sedimento di cui preoccuparci.
Infine, se infustiamo o imbottigliamo, dovremo per forza farlo in contropressione. Ciò per evitare di perdere la carbonazione acquisita grazie allo spuding ed ossidare il tutto. Perché, ricordiamolo, dovremo per forza andare a confezionare birra già gasata e dunque tutto l’ossigeno andrà a rovinare la birra, senza essere neanche in minima parte utilizzato dal lievito per la fermentazione, come avviene durante il priming. Utilizzando la contropressione in maniera appropriata (e sottolineo in maniera appropriata) dunque l’ossigeno sarà quasi del tutto assente, migliorando di molto la conservazione e la shelf-life del prodotto.
Lo spunding è in sintesi:
- Veloce;
- sicuro;
- pratico;
- pulito;
- migliore dal punto di vista conservativo.
Cosa serve e come si fa
Ci sono guide che spiegano molto meglio di me come fare, ma nessuna unica e specifica per questa fase. Perché? Perché è semplicissima. Oggi vorrei perciò darvi solamente qualche nozione base.
Innanzitutto occorre un contenitore ermeticamente chiuso che sopporti la pressione senza il rischio di esplodere. Che sia un fermentatore appositamente studiato come un unitank o un fermzilla oppure un fusto da birra poco importa, basta che regga la pressione. E no, i vostri fermentatori in plastica da kit non vanno bene.
In secondo luogo sarebbe opportuno dotare tale contenitore di una valvola di sfiato di sicurezza. Nonostante utilizzeremo una spunding valve, della quale parleremo tra un paio di righe, la sicurezza non è mai abbastanza. Le valvole di sicurezza, al raggiungimento di una determinata pressione interna, si aprono lasciando sfiatare il gas in eccesso per evitare spiacevoli esplosioni. Solitamente i fusti di tipo jolly le hanno sul coperchio, i fermentatori nella parte alta, oppure si possono trovare su alcuni innesti come alcune baionette. Mi raccomando: con la pressione non si scherza.
In ultimo basterà munirsi di una valvola appositamente studiata per lo spunding. Ve ne sono di vari tipi, alcuni più, altri meno performanti. Per informazioni in merito non esitate a chiedere. Io ne ho provate una manciata. In linea generale sarebbe da preferire quelle che hanno una vite di regolazione con molto gioco e dunque piuttosto lunga, se non altro perché sono molto precise e stabili. Le valvole di spunding funzionano esattamente come quelle di sfiato descritte sopra, con la sola eccezione che è possibile regolarle e dunque decidere al raggiungimento di quale pressione interna andranno ad aprirsi. Ciò ci permetterà dunque di scegliere quanto carbonare la nostra birra.
La pratica è abbastanza semplice. Si procede con gorgogliatore o blow-off come siamo abituati fino a metà della fermentazione (o 3/4) e poi si monta suddetta valvola, non prima. Perché? la fermentazione produce altri sottoprodotti indesiderati che vogliamo espellere con la co2. C’è chi parte già con valvola montata e parzialmente chiusa da inizio fermentazione, ma non è il caso di affrontare l’argomento in questa sede.
Una volta chiuso il nostro fermentatore o fusto (se non possediamo un fermentatore pressurizzabile) e montata la valvola si imposta la pressione desiderata di sfiato. Al di sopra di tale valore la co2 in eccesso uscirà, quella desiderata rimarrà dentro, tornando indietro poi nel liquido. Si creerà un situazione isobara tra birra e spazio di testa vuoto. Semplice, veloce e scientifico.
Al che, concluso il processo fermentativo, dobbiamo trasferire la birra fredda, applicando una opportuna spinta di contropressione tramite bombola di CO2. Qui una esaustiva spiegazione video. Si può fare questo step dopo la consueta winterizzazione. Come abbiamo detto, che il prodotto vada a finire in bottiglia o in fusto poco importa. Se avete qualche dubbio, vi consiglio di guardare qui. Ed ecco pronta la nostra birra scientificamente accurata!
Quanta pressione?
Bisogna considerare che la pressione varia al variare della temperatura, lo dice anche wikipedia. I volumi disciolti, invece, rimangono gli stessi… o meglio, come dice Frank di Brewing Bad: “se alzi la temperatura esce CO2 dalla birra creando pressione nello spazio di testa. Rimangono costanti i volumi di CO2 complessivi nel fermentatore, ma la CO2 si sposta dalla birra allo spazio di testa e viceversa” all’aumentare o al diminuire della temperatura. Col tempo, tuttavia, le due parti andranno a equilibrarsi allo stabilizzarsi della situazione esterna.
Perciò dato che andremo a travasare la birra a freddo il mio consiglio è quello di fare riferimento alla pressione che vorremo avere nella birra allora. Solitamente essa si esprime in bar o psi, ma io preferisco adottare la seconda scala, perché più precisa. Ormai io ci sono avvezzo e i calcoli mi vengono in automatico ma, qualora si volesse capire a quanti volumi di CO2 disciolti corrisponda una determinata pressione consiglio questo tool affiancato a un opportuno convertitore bar-psi.
Facciamo un esempio: supponiamo di volere una APA a 2.3 volumi di CO2 disciolti. Considerando che siamo nell’ultima parte della fermentazione per agevolarla alziamo un po’ la temperatura, diciamo a 21°C. Montiamo dunque la valvola e la impostiamo a 25.5 psi, risultato ottenuto col calcolatore di cui sopra. Al che sapremo che, una volta terminata la winterizzazione a 2°C, avremo una pressione di circa 8 psi. A questo valore dovremo dare la spinta di contropressione durante il trasferimento, mantenendo la situazione stabile nel contenitore di partenza e dunque evitando di far perdere volumi si CO2 ala birra. Semplice no?
Se tutto ciò dovesse risultare ancora ostico potete sempre utilizzare un calcolatore in fondo alla pagina qui linkata che vi risparmierà un bel po’ di calcoli e conversioni. Ovviamente la situazione è molto più complicata di ciò che sembra perché il calcolatore in questione si riferisce ad una situazione in cui andremo a immettere CO2 dall’esterno tramite bombola. Perciò, scendendo da 21 a 2°C una parte della CO2 di testa entrerà inevitabilmente nella birra, e noi, misurando la pressione dello spazio al di sopra della birra e non quella del liquido, non sapremo mai con esattezza la pressione dello stesso all’ordine del decimo di psi.
Per oggi è tutto, ci vediamo alla prossima!
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